E’ la ripetizione delle affermazioni che ti porta a crederci. E quella credenza che si trasforma poi in una convinzione profonda, e le cose cominciano ad accadere”. Muhammad Alì.
Il pugilato e le sue storie
Sul pugilato storie ne sono state scritte tante, perchè mai come in questo sport il sacrificio e la redenzione sembrano andare a braccetto, in una sorta di paso doble. Solo che non ci sono toro e torero, ma l’uomo e il suo destino. Perchè un pugile non smette mai di essere tale, neanche quando scende dal ring. Neanche quando smette di combattere, neanche quando l’età avanza. L’istinto, la rabbia, la grinta, il sacrificio, il sudore, lo accompagneranno sempre.
Uno dei film più belli sulla boxe e sul sacrificio che c’è dietro è Million Dollar Baby, di Eastwood. Pieno di passione e di aforismi.
«Parlare di boxe è parlare di rispetto. Cercare di ottenerlo per se stessi, togliendolo all’avversario.»
Incontro Alberto Castellacci al bar Borsa, in un freddo ma luminosissimo pomeriggio d’inverno. Fa parte della seconda era della Pugilistica, e, come molti hanno sostenuto, è stato un pugile di classe cristallina, forse il più forte peso medio dell’epoca. E’ puntalissimo e la curiosità è così forte che una volta accomodati accendo il registratore e parto subito con le domande. Ci guarderemo spesso negli occhi durante la chiacchierata, e le emozioni molte volte prenderanno il sopravvento, sopratutto quando si parlerà dell’incidente e della sua famiglia, di suo papà in particolare.
Gli inizi
“Ho iniziato ad andare in palestra a 12 anni, nel 1976, in Viale Trieste mi portò per la prima volta il marito di mia sorella grande. Ricordo che mi trovai subito benissimo. Il maestro Modena era burbero come mio papà, era come essere a casa”.
“Eravamo molto bravi, alcune spanne sopra molti atleti in quel periodo, ai giochi della gioventù, con le nostre esibizioni sulle figure fummo la squadra italiana più forte, ricordo che c’era gente che veniva apposta a vederci quando facevamo i guanti”.
Parliamo di educazione, di rispetto.
“La mia famiglia e la palestra mi hanno insegnato il rispetto, per tutti, ed è qualcosa cui non sono mai venuto meno. Tranne sul ring, lì la mia esuberanza veniva fuori in maniera marcata. Non ho mai avuto paura di nessuno sul quadrato”.
Alberto brucia le tappe, nel febbraio del 1978 diviene campione regionale dei pesi mosca, dopo 4 settimane campione interregionale e nel maggio dello stesso anno campione italiano, miglior pugile della manifestazione. Al suo angolo sempre il maestro Modena, Alberto lo ricorda ancora con grandissimo affetto.
“Era burbero, a volte intrattabile, ma era onesto, integerrimo, ed aveva un grandissimo fiuto per il pugilato, la palestra e la Pugilistica erano la sua vita”.
Il suo stile
Mi confida che, avendo presente la sua esuberanza, che sembrava indomabile, il maestro gli concedeva uno spazio particolare, tutto suo, sempre all’interno delle regole della palestra.
La boxe è qualcosa di innaturale perché si fa sempre tutto al contrario. Quando vuoi spostarti a sinistra, non fai un passo a sinistra: spingi sull’alluce destro. Per spostarti a destra usi l’alluce sinistro. Invece di allontanarti dal dolore come farebbe qualunque persona sana, gli vai incontro. Tutto nella boxe funziona al contrario.
“Sono sempre stato un pugile che combatteva cercando di sottomettere psicologicamente l’avversario, mi piaceva portare i colpi cercando di prenderne meno possibile, non mi è mai interessato portarne 100 e prenderne 99. Il maestro cercava di assecondare alcune mie peculiarità caratteriali, ad esempio sono stato uno dei primi a portare le frange sulle scarpe. Mi ha sempre tenuto all’interno delle regole e del rispetto, gli devo molto”.
Col carattere esuberante di Alberto, essere campione italiano a 14 anni poteva essere l’inizio della fine, invece lui ha degli obiettivi, che vanno sopra tutto, e che con sacrificio e dedizione vuole raggiungere. Il primo è quello di vestire la canottiera azzurra della Nazionale. Nel 1979 disputa il primo dei 25 incontri a difesa dei nostri colori. Entra da peso gallo ed arriva fino ai pesi superleggeri, nel 1984 quando termina la sua esperienza. In mezzo, tante soddisfazioni, tra cui una medaglia d’argento in Algeria, nei superleggeri, ed una stupenda esperienza in Irlanda, paese che ricorda con grande piacere.
Il passaggio a pro
Il mondo dei dilettanti inizia a stargli stretto, l’obiettivo è il professionismo, e non per il denaro, ma per l’appagamento di poter combattere con i più forti. Era il periodo di grandissimi pesi medi : Marvin Hagler, Thomas Hearns, Sugar Ray Leonard, Roberto Duran. Giusto per fare qualche nome. E c’era ancora Alì, il suo idolo, la leggenda. Il mondiale si combatte ancora sulla mitica distanza delle 15 riprese.
Per uno come Alberto è quello il gotha cui aspirare, il suo nirvana. Deve aspettare i 21 anni, erano quelle le regole al tempo. Nell’attesa svolge il servizio di leva nei bersaglieri e combatte 5 incontri per la Nazionale Militare, vincendo in tutte le circostanze. Passa a pro il 20 dicembre del 1985 salendo sul ring contro Jean-Pierre Mariani a Rovigo, vincendo agevolmente.
Gli incontri si susseguono, ma, tranne due sconfitte, Alberto tira dritto come un treno, travolgendo gli avversari con diverse vittorie prima del limite, sempre con il maestro Modena all’angolo.
Mentre racconta mi sembra quasi di sentirla addosso la sua voglia di fare in fretta, di dimostrare a tutti che era il migliore.
L’incidente
Se c’è una magia nella boxe è la magia di combattere battaglie al di là di ogni sopportazione, al di là di costole incrinate, reni fatti a pezzi e retine distaccate. È la magia di rischiare tutto per realizzare un sogno che nessuno vede tranne te.
Alberto è di fronte a me, gli occhi lucidi persi nei ricordi, come se ancora adesso avesse qualche demone da seguire, da far tacere.
“L’incontro per il titolo italiano viene fissato per marzo del 1988, continuo ad allenarmi, il mio essere esuberante mi porta al limite della presunzione, a pensare che non avrei avuto problemi a vincere, a far mia la cintura. A febbraio però, la macchina che guidavo finisce contro un platano, poco prima del ponte di Boara. Il mio amico muore, io rimango gravemente ferito. Il femore fracassato, lo sterzo nello stomaco, i polmoni perforati. Sono vivo solo per miracolo, e i danni fisici li ho sopportati solo perché ero un atleta”.
La voce è ferma, ma credo che i brividi che sento sulla schiena li senta anche lui, forse me li trasmette.
“Mi trasportano a Verona, vengo operato e per tutti la mia carriera pugilistica era conclusa. Solo per poter togliere i ferri nella gamba avrei dovuto aspettare 18 mesi, c’erano dubbi potessi tornare a camminare, figuriamoci tornare a combattere”.
Lui però non ci sta, in quei mesi che passa solo in ospedale capisce che è ancora forte, forse più forte di quando ci è entrato in fin di vita. Che forse, quando pensi di aver perso tutto e devi far fondo alle riserve di energia che hai dentro, ti ricordi che ci sono limiti che non credevi di poter superare, ma li scavalchi comunque, e vai oltre.
Lui è un pugile, prima ancora che un uomo, e non ha ancora sentito la campana suonare, l’arbitro non lo sta contando. Può ancora alzarsi e cercare l’ultimo round contro i suoi demoni. Torna a casa dopo 3 mesi. Dopo altri 6 si fa togliere, contro il parere di tutti, i ferri dalla gamba ed inizia nuovamente ad allenarsi.
La ripresa degli allenamenti
“Con mio padre andavo tutti i giorni sull’argine del fiume ad allenarmi. Per rafforzare la gamba indossavo uno scarpone appesantito con dei pesi, ed avevo modificato la bicicletta in modo da dover pedalare con una sola gamba”.
Sembra quasi di vederlo mentre racconta, perché la sua trance è tale che è come se ci si vedesse anche lui. Torna in palestra e sente di essere forte quanto e più di prima. Nessuno però si prende la responsabilità di ridargli la licenza per combattere in Italia. Lui cerca in tutti i modi di superare quell’ostacolo, perchè sente di aver diritto almeno ad un ultimo match. Arriva persino a chiedere un consulto al medico che segue un altro pugile, Gianfranco Rosi, suo caro amico. Crede che forse il parere di un medico che segue un atleta che è stato campione del mondo WBC possa riaprire quelle porte che, per il CONI, sono chiuse.
Il parere del medico è positivo, gli esami sono perfetti e, secondo lui, non esistono situazioni ostative al rientro di Alberto. Neanche questa strada però si rivela vincente, lo stesso no del CONI si staglia davanti a lui, come un muro. Si sente nuovamente finito e con ancora più rabbia. Il suo manager lo chiama e gli offre la possibilità di fare da sparring per lo svizzero Bernard Bonzon, candidato al titolo europeo dei medi.
L’ultimo match
Lui non ci sta, è Alberto Castellacci, non può finire a fare lo sparring, anche se di rilievo. Chiude il telefono per poi richiamarlo e rilanciare, vada per la Svizzera, ma solo se si tratta di un incontro ufficiale. Il suo manager ci pensa giusto dieci minuti, poi si convince che è una possibilità che non può essere negata, che è nel diritto di Alberto e della boxe.
Ottiene il permesso di combattere in terra Elvetica. E’ così si fa.
“Partimmo per Monthey con la 850 di papà che insieme al maestro Modena sarebbe stato al mio angolo, ricordo ogni minuto di quel viaggio, pensavo che non vedevo l’ora di salire nuovamente sul ring. Sapevo che ero il più forte, ancora adesso sono convinto che non sarebbe cambiato nulla con qualunque avversario. Volevo vincere, avrei vinto”.
“Ricordo che il palazzetto era stracolmo, il 95% del pubblico era svizzero e ricordo che l’accoglienza non fu delle migliori, dal loro atteggiamento capii che mi consideravano l’agnello sacrificale”.
Non avevano fatto i conti con Alberto, che al destino ed ai suoi demoni aveva tanto da chiedere e tanto da prendere e pretendere. Non c’è praticamente storia in quella sera del 20 aprile 1990, Alberto mette KO lo svizzero in appena tre round, corre verso l’angolo, abbraccia il padre, in una foto che è carica di emozioni, quasi sembra escano fuori dallo scatto. Poi abbraccia il maestro Modena. Anche i suoi demoni, in quel momento, hanno capito chi era il più forte.
Tutte le frasi in corsivo e grassetto sono tratte dal film “Million Dollar Baby” di Clint Eastwood.
Tutte le foto sono di proprietà di Alberto Castellacci e della Pugilistica Rodigina.
Grazie ad itRovigo e Alessandro Effe, l’articolo originale lo trovate a questo link.